SANTIAGO DEL CILE – Per il paese è una sentenza storica. Per le donne una grande vittoria. Atteso da milioni di persone e fonte di grandi tensioni e polemiche, il Tribunale Costituzionale ha emesso un verdetto che respinge i ricorsi della destra e del settore più conservatore della Chiesa e della stessa sinistra che puntavano a lasciare inalterato l’impianto legislativo sul divieto di aborto. La Corte ha invece deciso di accogliere la proposta del presidente Michelle Bachelet che scardina l’attuale legge e rende possibile l’interruzione di gravidanza davanti a tre condizioni: il pericolo di vita della donna, le malformazioni del feto e la violenza sessuale. Approvata all’inizio di agosto dal Parlamento, la proposta di legge – forse uno dei progetti più importanti del secondo mandato (2014-2018) della presidente – è passata all’esame dell’Alto Tribunale che a maggioranza (sei voti contro quattro) ha confermato la sua legittimità costituzionale. “Oggi”, ha commentato raggiante la Bachelet dal Palazzo de La Moneda, con a fianco il ministro della Donna e della Salute, “hanno vinto le donne, ha vinto la democrazia, ha vinto il Cile”.
Ci sono voluti tre decenni per far rientrare il paese latinoamericano nel novero di quelli più avanzati da un punto di vista dei diritti civili. Ancora oggi l’interruzione di gravidanza è considerata reato in Nicaragua, Repubblica Domenicana, Salvador, Haiti e Malta. Era stato Augusto Pinochet, nel 1989, alla fine della sua lunga dittatura criminale, ad abolire una legge che aveva liberalizzato l’aborto vent’anni prima. Come lascito della sua Giunta militare cancellò la legge con un colpo di penna. Stabilì che l’interruzione di gravidanza era illegale e perseguibile penalmente. In ogni caso: anche di fronte ad un palese stupro avvenuto in famiglia e magari ai danni di una minorenne. L’avvento della democrazia, nel 1990, aprì finalmente le porte ai primi dibattiti sulle libertà così a lungo represse. La prima battaglia del movimento femminista fu incentrata proprio su un tema che era diventato impellente, visto che, nonostante il divieto assoluto, migliaia di donne erano costrette ad abortire in maniera clandestina nelle cliniche private. La Chiesa cattolica, tradizionalmente conservatrice e i gruppi della destra e perfino della sinistra ancorati a valori difficili da estirpare, fecero quadrato e per 28 anni di aborto non si parlò più. Con l’abolizione del divieto assoluto e la cauta apertura a tre importanti condizioni, si pone fine a una doppia morale: non sarà più una pratica clandestina e si metteranno in sicurezza le 70 mila donne che si rivolgono a medici compiacenti per le interruzioni di gravidanza.
Molte, infatti, sono costrette a rivolgersi ai centri di assistenza dopo aver tentato di abortire con propri mezzi. Arrivano di corsa, colpite da violente emorragie e da complicazioni che rischiano di ucciderle. Alcune sono morte. Come una madre di 28 anni, sposata, che per per ignoranza arrivò a introdurre ben 55 pastiglie nella vagina alla fine degli anni 90. Soffrì le pene dell’inferno e fu colta da un arresto cardiocircolatorio nell’ospedale in cui era stata ricoverata. Un rapporto dei Diritti Umani nel 2013 dell’università Diego Portales raccontò la storia di una cilena che aveva aiutato a abortire sua nipote di 16 anni. La ragazza si chiuse in bagno e quando la zia riuscì ad entrare la trovò con il feto strozzato dal cordone ombelicale. La giovane se la cavò ma venne perseguita. “Fu terribile”, raccontò alla commissione, “non sarebbe dovuto avvenire. Avrebbe dovuto avere la possibilità di rivolgersi ad un ospedale, avere appoggio, essere curata”.
La battaglia della presidente Bachelet non è stata facile. Contrastata dalla destra e dal fronte più conservatore della chiesa, ha dovuto fare un lento ma costante lavoro di mediazione. Con alti e bassi, improvvise aperture e altrettante rapide chiusure. Il lascito di un regime come quello di Pinochet dove tutto veniva impostato sul terrore era un’eredità che si era radicata nel tessuto sociale di per sé contrario a mutamenti che avrebbero messo a rischio valori come la famiglia, l’unione tra sessi diversi, i figli, la procreazione. Ampi settori tradizionalisti della società cilena, i più oltranzisti, preferivano occultare la realtà. Il ministro della salute, Helia Molina, venne fatto oggetto di pesanti critiche e costretta alla fine a rassegnare le dimissioni. Aveva osato dire quello che tutti sapevano ma facevano finta di ignorare. “In tutte le cliniche private, quelle per ricchi”, disse una volta in Parlamento, “molte famiglie conservatrici hanno fatto abortire le loro figlie”.
Una verità amara. Nonostante il divieto di aborto colpisse tutte le donne cilene, di differenti età e condizioni sociali, gli strati più poveri erano ovviamente i più colpiti. Secondo un rapporto della Difesa penale pubblica, un organismo che gestisce l’assistenza legale all’80 per cento degli imputati per i delitti che si commettono nel paese, tra il 2006 e febbraio del 2015 ben 506 persone furono accusate del reato di aborto clandestino. La maggioranza era stata denunciata da un ospedale pubblico che in Cile è usato da chi non ha soldi per permettersi una clinica privata.
Con il nuovo verdetto il gravissimo problema dell’aborto clandestino non sarà certo risolto. Ma è un importante passo in avanti che risolverà i casi più eclatanti. Come quelli di stupri. E’ stato uno di questi a provocare un ampio dibattito in Parlamento concluso poi con l’approvazione della legge adesso dichiarata costituzionale. Riguardava Belén, una bambina di 11 anni che era stata violentata dal suo patrigno. Rimase incinta e fu obbligata a partorire un figlio nel 2013. Attualmente l’87 per cento delle ragazze aggredite sessualmente sono minori di 14 anni.
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