“Arrestate Fujimori”. La Corte Suprema del Perù ha annullato il provvedimento di indulto concesso al vecchio dittatore alla vigilia del Natale scorso. Un provvedimento che aveva fatto scalpore perché frutto di una trattativa tra i “fujimoristi”, maggioranza al Congresso, e il piccolo partito dell’ex presidente Pedro Pablo Kuczynski: la scarcerazione del vecchio (80 anni) per due volte Capo di Stato in cambio dei voti necessari a evitare la procedura di impeachment. Alberto Fujimori lasciò la caserma dell’Esercito dove era agli arresti 17 anni prima di aver terminato di scontare la condanna a 25 anni per violazione dei Diritti umani comminata nel 2009. La sua scarcerazione provocò subito una serie di proteste e manifestazioni di piazza. Ma anche il ricorso dei parenti delle vittime dei due gravi episodi di cui “el chino” era accusato: le stragi di Barrios Altos e de La Cancuta. Due operazioni portate avanti dal Gruppo Colina, creato dal capo dei Servizi Segreti per il lavoro sporco, durante le quali venne massacrata una decina di innocenti sospettati di legami con il terrorismo. Il ricorso dei parenti è stato accolto dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani (IDH). Nelle motivazioni la Corte aveva esortato il governo peruviano a “correggere integramente e in buona fede la violazione giuridica dell’atto senza aderire alle norme nazionali contrarie o alle decisioni giudiziarie”. L’indulto, insomma, veniva considerato illegittimo e andava revocato. La Corte Suprema peruviana, alla quale si erano rivolti i parenti delle vittime, si è riunita e ha deciso a maggioranza di aderire all’invito. Il provvedimento di indulto è stato revocato e un magistrato ha già spiccato un ordine di cattura. Il governo del nuovo presidente Martín Vizcarra ha annunciato che non si opporrà. La svolta, dirompente in un paese da sempre diviso sul vecchio Fujimori e sul suo operato, è una sorta di resa di conti tra il potere legislativo e quello giudiziario. Il primo impedisce da mesi la sostituzione di un alto magistrato coinvolto nelle mazzette elargite da imprenditori legati ai “fijimoristi” accusati di corruzione. Lo stallo di un confronto duro e senza sbocchi interrotto adesso dal ritorno in carcere dell’uomo più discusso nel paese andino.
Bolsonaro Superstar. Anche la Confindustria si schiera con il candidato di estrema destra alle elezioni presidenziali che si svolgono in Brasile domenica prossima. Una scelta di campo accolta con vera euforia e trasporto. I mercati hanno subito reagito bene e la Borsa, per la prima volta dal novembre 2016, ha chiuso con un rialzo del 4 per cento. Jair Bolsonaro ha raggiunto il 31 per cento dei consensi. Merito delle Chiese Evangeliste, determinanti anche tra la classe più povera, e di parte della Curia che nei giorni scorsi lo hanno scelto ufficialmente. Fernando Haddad, il sostituto di Lula, arranca e resta sotto di dieci punti. L’assenza di un candidato che convinca spinge la gente a votare il meno peggio. E in Brasile, ferito dal tradimento di Lula e del Pt, il meno peggio è l’uomo della dittatura, che odia gay e donne, che considera un poliziotto solo se spara e uccide.
Le borse al Bolivar. La crisi economica e valutaria del Venezuela spinge uomini e donne a inventarsi di tutto. Per trovare soldi con cui mangiare e dormire, oltre che curarsi nelle poche cliniche private ancora in attività, sfruttano al massimo gli oggetti che si trovano più facilmente in giro. Così molti hanno pensato bene di riciclare i fogli del Bolivar, ormai carta straccia, per foderare borse, scarpe, cinture e portafogli. “Con i biglietti da 400 ci faccio una borsa, con 140 un portamonete”, spiega la costumista Wilmarys Pacheco, la prima ad aver concretamente messo a punto la sua idea. In molte hanno deciso di copiarla. Ne hanno approfittato quelli che in questi mesi avevano accumulato montagne di Bolivar ormai inservibili: li vendono alle stiliste improvvisate in cambio di qualche dollaro con cui sfamarsi.

La crisi nata dopo 5 mesi di rivolta ha colpito anche l’economia del Nicaragua, soprattutto nel turismo
Il crollo del Nicaragua. La violenta repressione della rivolta che per sei mesi ha sconvolto il regime di Daniel Ortega ha lasciato un paese stremato dal terrore e con un’economia al collasso. Oltre 347 mila persone hanno perso il lavoro; 60 mila nel settore del turismo, considerato uno di quelli che offre le maggiori entrate. Prima dell’inizio della protesta i ristoranti e i bar di Managua pullulavano di stranieri e locali. Era difficile trovare posto soprattutto nei fine settimana. Adesso molti di questi hanno chiuso e altri si arrangiano senza più clienti. Stessa situazione a Granada, meta turistica per eccellenza in Nicaragua. Il turismo è crollato del 95 per cento. Non c’è più uno straniero in giro. Secondo la Fondazione Internazionale per lo Sviluppo Economico Globale (Fideg), il 41 per cento della popolazione vive in condizioni di povertà. Potrebbe arrivare al 46 se si contrae il consumo. Stessa sorte potrebbe capitare al 1,2 milioni di benestanti. Anche il settore finanziario ha subìto una caduta verticale: a settembre il principale istituto bancario del paese ha licenziato 300 dipendenti.
La macchina delle Fake news. La forza elettorale di Jair Bolsonaro è sui social. La squadra che guida la campagna del candidato dell’estrema destra conta su navigatori in rete abili e spregiudicati. E visto che il Brasile, con i suoi 120 milioni di utenti (60 per cento della popolazione), è il paese dove si usa più di altri al mondo l’applicazione di WahtsApp le bufale sono una costante. El Pais Brazil ha seguito per tre mesi le chat e gli account del gruppo di Bolsonaro e ha scoperto che le notizie pubblicate sono dei fake senza pudore. Bugie, informazioni distorte, alcune del tutto inventate. Che però finiscono per fare presa sull’elettorato sempre più diviso e polarizzato attorno ad una scelta di cambiamento e di rottura con il sistema. Lo scopo di tanti falsi è chiaramente quello di mettere in discussione le notizie pubblicate dai media tradizionali già in crisi di credibilità per motivi diversi. I tre gruppi che lavorano sui social, sorretti da un migliaio tra militanti e simpatizzanti, immettono 1000 notizie al giorno. La battaglia ha quasi acquistato il senso di una battaglia democratica: si scaglia contro i grandi media, legati ai grandi poteri e quindi condizionati, e affida ai social, quindi alla gente, la presunta verità. Un terreno fertilissimo dove abboccano in tanti, trasformando leggende in notizie, la maggioranza false, in una guerra che non è più fatta di casa in casa, via per via, quartiere per quartiere. Ma solo virtuale. Come il mondo in cui i brasiliani si sono rifugiati.
Il guerrigliero pentito. “L’errore più grande è stato consegnare le armi”. Lo afferma Ivàn Marquez, il numero due delle vecchie Farc, l’uomo che guidò la delegazione nel lungo confronto de L’Avana per raggiungere la pace con il governo colombiano. Deluso e sopraffatto dalle difficoltà che incontrano molti ex guerriglieri a inserirsi nella vita civile (tanto che alcuni sarebbero già tornati nella giungla), il leader del più antico gruppo di lotta armata dell’America Latina lancia la sua critica sul disarmo da una località sconosciuta dove si è rifugiato da quattro mesi. Marquez non lesina critiche al governo, adesso guidato tra l’altro dalla destra, e lo accusa di “aver tradito la pace”. Ma appunta il suo lungo sfogo, accolto con silenzio dagli altri dirigenti, sul capitolo del disarmo: “Me l’avevano detto i nostri vecchi dirigenti: mai consegnare il fucile. Oggi riconosco che avevano ragione. L’accordo ha avuto un errore strutturale: aver firmato come primo punto il disarmo del nostro esercito”.
La carica degli evangelisti. Per la prima volta in decenni, l’Uruguay ha rotto la sua tradizionale anima tollerante. Famoso per essere conciliante e affrontare ogni contrasto con il dialogo, il piccolo paese sudamericano sta vivendo un’ondata di pressioni da parte della potente Congregazione delle Chiese Evangeliste, ormai diffusissime in tutto il Continente, per non far approvare una legge che accolga i diritti civili di gay, lesbiche e transessuali. Sebbene sia formata solo un migliaio di persone, la comunità gay rivendica da anni alcuni diritti che adesso sono contenuti in una legge bloccata in Parlamento. Si prevedono accessi a posti pubblici, finora negati, cambio di sesso negli ospedali dello Stato e in forma gratuita, facilitazioni per il cambio di identità. Gli evangelisti, rimasi a lungo nell’ombra, sono usciti allo scoperto con appelli e pressioni su senatori e deputati. Il provvedimento è congelato in aula senza trovare una maggioranza disposto a vararlo. Montevideo e altre città dell’Uruguay sono state attraversate da cortei opposti in una mobilitazione senza precedenti.
Leave A Reply